Paolo Aita / Sexodus
Sono sempre valide le distinzioni, per meglio comprendere in arte. Secondo tale modo di procedere (che ha numerosi esempi illustri, come Contini che differenziava totalmente Dante da Petrarca, o Worringer che sezionava l’astrazione e l’empatia nell’arte), ci sono artisti lineari o multiversi. Simone Bertugno appartiene irrimediabilmente al secondo tipo. Di fronte le sue opere occorre essere sempre ben disposti nei confronti della meraviglia, di un proliferare maiuscolo e indomabile, di un eccesso che, per essere maggiormente efficace, si dispone su modelli provenienti anche da un’antichità curiosa e vorace.
Le immagini di Venere sono estremamente varie nell’antichità. Da Cipride a Callipigia, tutte le versioni hanno unito il sesso alla bellezza, alla moltiplicazione gioiosa dell’espansione. Venere, nelle parole di Lucrezio, “è l’unico elemento che, quanto più ne possiedi,/ più il petto ne arde di cupidigia infinita”: le parole del poeta testimoniano di un piacere che solo tanto tempo dopo è stato castigato, infatti ardore, legato al corpo, e ardimento, relativo alla conoscenza, hanno la medesima origine.
Quest’ultima opera di Simone Bertugno testimonia un passaggio: da un proliferare regolato e consequenziale, a un allargamento dei campi desideranti (direbbero Deleuze e Guattari); questo l’erotismo profondo di questa ricerca, che attraverso le combinazioni dei corpi cerca le leggi di attrazione degli elementi. Nelle opere precedenti si poteva assistere a una germinazione ordinata e consequenziale, ora invece c’è una proliferazione incontrollabile. Le associazioni avvengono su piani regolati più dal capriccio e dalle possibilità, che dalle leggi di natura. Essa, comunque, nel suo procedere evolutivo, con gli anfibi, non ha tralasciato l’intervallo tra animali terrestri e pesci, e con le varie specie ugualmente ha coperto lo spazio che va dal terrestre al volatile, e poi da animale a vegetale, a minerale. C’è tutto un incrociarsi, un mescolarsi, un corrompersi, tale che la legge dell’incrocio e dell’incontro sembra essere una costante, suprema come la sopravvivenza stessa. E’ come se la natura volesse sperimentare se stessa, e, realizzando incroci inediti, generasse, attraverso nuove esperienze e commistioni, nuove creature.
Le creature viaggiano eroticamente. Dal Ratto delle Sabine al complesso di Edipo, da sempre si sa che la sopravvivenza è legata al dialogo tra mondi differenti, poiché si può amare solo il diverso, e più lo si cerca lontano, più cresce la sapienza e il godimento. A questa legge non si può sottrarre neanche l’arte. Con Henry Miller: “Le creature umane formano una strana fauna, una strana flora. Da lontano paiono trascurabili, da vicino possono sembrare brutte e cattive. Ma soprattutto occorre che abbiano intorno aria, spazio sufficiente -spazio, anche più che tempo”. Nelle parole dello scrittore fauna e flora, spazio e tempo si mescolano. In questa mostra di Simone Bertugno siamo passati da una produttività plausibile a uno spazio leibniziano, dalla retta al cerchio, con una demoltiplicazione di possibilità che sorprende quanto (quando) genera. Lo sperimentare per Simone Bertugno è comunque erotico, e copre anche lo spazio che va tra il curiosum (il fenomeno raro, il prodigio) e l’amore per le infinite ramificazioni e diramazioni della fantasia, che in natura tranquillamente e regolarmente diventa conoscenza: non c’è attrazione maggiore di quella che unisce desiderio e sapienza.